L’AVVOCATO RISPONDE – La pericolosità sociale del maltrattore di animali
Nuovo appuntamento con la rubrica di Tesori a quattro zampe L’AVVOCATO RISPONDE:
“Alcuni recentissimi fatti di cronaca che hanno avuto quali vittime gli animali, tra i quali l’agghiacciante uccisione a Roma di un cucciolo di Labrador di soli due mesi da parte di un 50enne che ha sfogato sul piccolo la sua ira per una lite insorta con i proprietari, rendono necessario affrontare il tema della cd pericolosità sociale di quegli individui che si compiono atti di violenza e/o crudeltà di qualsiasi tipologia e/o natura nei confronti degli animali.
L’articolo 203 del Codice Penale definisce socialmente pericolosa “la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente [reati o quasi-reati], quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati” La Sezione Penale della Suprema Corte di Cassazione, con una nota sentenza del 1990, ha precisato che la pericolosità sociale altro non è che una qualità, un modo di essere del soggetto, da cui si deduce la probabilità che egli commetta nuovi reati. Secondo tale tesi “la pericolosità si presenta, quindi, come uno status, una qualità, o più precisamente come quella nota caratterizzante in modo del tutto autonomo quel soggetto che, anche al di fuori del fatto di reato, storicamente determinato, manifesti nella sua personalità qualità tali da far ritenere non solo possibile, ma molto probabile per l’avvenire la sua ricaduta nel reato.”
“Le persone che commettono un singolo atto di violenza sugli animali sono più portate a commettere altri reati rispetto a coloro che non hanno abusato di animali. Come segnale di un potenziale comportamento antisociale, che include ma non si limita alla violenza, atti isolati di crudeltà nei confronti degli animali non devono essere ignorati dai giudici, psichiatri, assistenti sociali, veterinari, poliziotti e tutti coloro che incappano in abusi sugli animali durante il proprio lavoro” (The Web Of Cruelty: “ What animal abuse tells us about humans ”, di Arnold Arluke).
La letteratura scientifica evidenzia ormai da anni come la violenza nei confronti degli animali possa essere ricondotta ad una potenziale situazione patogena e sia riconosciuta come indicatore di pericolosità sociale, intendendo detta espressione la probabilità o mera possibilità che un soggetto responsabile di tali crimini realizzi contemporaneamente o in futuro altri reati. Già nel 1953 l’etologo e piscoanalista inglese John Bowlby riconosceva che “La crudeltà verso gli animali e verso gli altri bambini è un tratto caratteristico, sebbene non comune, dei delinquenti non empatici. Manifestazioni occasionali di crudeltà senza senso sono ben conosciute in alcune forme di malattie mentali”. Nel 1987 la crudeltà sugli animali è stata inoltre inserita fra i sintomi indicativi del disordine della condotta nel DSM-III-R (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali).
Una ricerca condotta tra i detenuti ha dimostrato che il 70% di coloro che si sono macchiati di reati a sfondo sessuale avevano in precedenza maltrattato o seviziato animali, tanto da bambini e/o adolescenti che da adulti. Ancora, uno studio condotto dal Nucleo investigativo per i reati in danno agli animali del Corpo forestale dello Stato e dall’Associazione Link-Italia effettuato nelle carceri italiane, grazie alla collaborazione del Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) su un campione di 537 detenuti per reati diversi ha fatto emergere come di questi l’87% da minorenne ha maltrattato, ucciso o assistito a maltrattamenti e uccisioni di animali, il 64% dei detenuti ha maltrattato animali da adulto e tra questi il 48% aveva già maltrattato animali da minorenne.
Atti di violenza nei confronti degli animali durante il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza, specie quando risultano connotati da particolare crudeltà, sono quindi dei segnali cui prestare la massima attenzione proprio perché rientranti tra gli “indicatori” ed i fattori di rischio per un potenziale sviluppo di successive condotte criminali. Ancora, e la cronaca lo ha dimostrato, la violenza su animali è spesso parte integrante di altri crimini; non è infrequente, purtroppo, leggere di partner violenti che minacciano la loro compagna di nuocere al suo animale domestico per indurla a non rompere la relazione o nei casi più gravi di partner che sfogano sull’animale dell’ex la loro rabbia per essere stati lasciati. L’utilizzo della crudeltà fisica su animali come strumento di violenza psicologica sulle persone.
Atti ripugnanti ed inqualificabili posti in essere da soggetti connotati da un’elevata pericolosità sociale e che, come in precedenza detto, sono capaci di sfogare la loro ira o le loro frustrazioni su un animale prima e su un essere umano poi per alleviare quel sentimento di inferiorità e/o impotenza da cui sono affetti. Comprovata, quindi, la sussistenza della correlazione tra uccisione e maltrattamento di animale con le violenze interpersonali e tutte le altre condotte antisociali, a partire dagli atti persecutori ed intimidatori, passando per la violenza domestica per arrivare, attraverso altre fattispecie di reato, persino alla criminalità violenta. In ambito domestico il maltrattamento e l’uccisione di animali da parte di adulti sono scientificamente riconosciuti come indicatori di potenziale violenza su donne e minori e possono sfociare in atti persecutori ed intimidatori. Maltrattamento di animali come importante indicatore di pericolosità sociale nonché sintomo di una potenziale situazione patogena in chi lo commette contrapponendosi fermamente all’ancor purtroppo diffusa, retrograda e socialmente pericolosa mentalità del ‘tanto sono solo animali’. Spesso sono le situazioni di disagio familiare o scolastico ad causa di una condotta aggressiva e violenta verso coloro che vengono percepiti come ‘più deboli’, e quindi gli animali, e che non potendosi difendere sono vittima prescelta per soprusi ed angherie.
Difficile è individuare l’origine e le cause del comportamento violento nei confronti degli animali, condotta non sempre riconducibile ad un fattore univoco e che può manifestarsi in diverse modalità modalità, commissive ed omissive (l’incuria o l’abbandono, perpetrati mediante condotta omissiva, sono forme di violenza e maltrattamento, seppur percepite socialmente come “meno gravi” rispetto al maltrattamento perpetrato invece mediante una condotta commissiva) e riconducibili a molteplici problematiche di ordine psicologica e sociale dell’autore, che ovviamente variano da soggetto a soggetto. Per tracciare a grandi linee il profilo del maltrattatore di animali basta scartabellare tra gli atti dei fascicoli dei processi per reati di cui agli artt. 544 bis e ter cp e scoprire come la maggior parte degli autori di detti reati sono soggetti privi di qualsivoglia empatia, totalmente indifferenti alle sofferenze inflitte agli animali, con una bassissima, se non inesistente capacità di gestione della rabbia, e cresciuti in ambienti familiari spesso problematici.
Il comportamento violento nei confronti degli animali è costituito da condotta non sempre riconducibile ad un fattore univoco e che può manifestarsi in diverse modalità modalità, commissive ed omissive. L’incuria o l’abbandono, perpetrati mediante condotta omissiva, sono forme di violenza e maltrattamento, seppur percepite socialmente come “meno gravi” rispetto al maltrattamento perpetrato invece mediante una condotta commissiva. Ci sono inoltre maltrattamenti che assumono profili di maggiore gravità in quanto più strettamente collegati alla malavita organizzata e alla circolazione di denaro per scommesse illegali, come i casi di combattimenti clandestini, di corse illegali di cavalli, e i canili, i rifugi e il traffico di animali, che viaggiano parallelamente a tutti gli altri tipi di abuso e/o violenza.
La violenza può essere intenzionale e diretta, oppure indiretta e derivante dalle condizioni innaturali di vita alle quali è costretto l’animale Un esempio di abuso a danno dell’animale dove la violenza non si esprime con atti soppressivi è la patologia da accumulo traslata su animali: la cd Animal hoarding, termine inglese che definisce la patologia di chi accumula (to hoard = accumulare, accaparrare, ammucchiare) nella propria abitazione un numero elevato di animali. Cani e gatti sono le specie più comunemente detenute, ma il fenomeno coinvolge in minor misura anche animali selvatici, esotici e specie d’allevamento. In questo caso le patologie riscontrate negli animali sono da mancata assistenza a causa del sovraffollamento di essi in aree circoscritte e la trasmissione di malattie per le condizioni generali, spesso caratterizzate da scarsissima igiene, in cui gli animali sono costretti a vivere
Alla luce di quanto precede, e su cui si potrebbe argomentare all’infinito, unitamente alla denuncia, da farsi sempre in caso di abusi e/o violenze manifeste o sospettate, uno strumento utile per contrastare la violenza sugli animali (che si manifesta solitamente tra i 4 ed i 6 anni di età) è l’educare i bambini sin da piccoli al rispetto della vita e dell’altro, quest’ultimo inteso non solo come altro essere umano, ma anche come l’animale o la natura. L’inculcare nei piccoli il concetto di ‘rispetto’ ed ‘amore’ verso ogni forma di vita è sicuramente uno strumento di prevenzione efficace dei comportamenti violenti. Riuscire a cogliere già in soggetti in età prescolare, quei segnali di allarme, indicatori di probabili abusi nonché indici predittivi di sviluppo e conclamazione di una futura attività violenta, antisociale o delinquenziale in età adulta, permetterebbe di poter bloccare il ciclo della violenza. Insegnare ai bambini il rispetto verso gli animali ne farà degli adulti migliori e capaci di dare vita ad un mondo migliore di quello in cui oggi viviamo”.
Giada Bernardi, avvocatessa