L’abbandono dei cani e gatti in Italia
Cinque anni fa discussi, in sede di laurea, una tesi dal titolo: “strategie didattiche per migliorare l’adattabilità e il benessere dei cani ospitati nei canili”. Il mio lavoro nasceva dall’esigenza di trovare delle alternative che migliorassero lo stato di benessere dei cani che vivevano in canile. Vi riporto una parte dell’elaborato che spero sarà oggetto di riflessioni.
L’abbandono dei cani e dei gatti ed il conseguente esubero di soggetti costretti a vivere in canile/gattile in condizioni, spesso, molto disagiate, è tra i fenomeni sociali correlati agli animali più discussi e che hanno un forte peso sull’economia pubblica. La legislazione italiana, statale e regionale, cerca soluzioni al costante esubero di cani presenti nei canili, ma il problema fondamentale resta un modello culturale ancora legato ad un’immagine negativa delle strutture-canile e dei cani in esse presenti.
L’effetto di questo problema è rappresentato da un forte impegno economico per le amministrazioni pubbliche e dal fatto che i cani vivono in canile in condizioni di vita spesso molto lontane dai livelli minimi di benessere animale. Inoltre, permane una percezione diffusa del canile quale struttura “discarica” dei cani più sgradevoli e l’insufficiente proporzione tra soggetti che entrano nelle strutture e soggetti che vengono adottati.
Dalla politica del “No-Kill”, nata negli ultimi decenni in Italia, con l’introduzione della Legge quadro n° 281 del 14 agosto 1991, di cui l’articolo 2 comma 2 vieta: “la soppressione degli animali randagi riconoscendo loro il diritto alla vita a meno che gravemente malati, incurabili o di comprovata pericolosità”, si è riscontrato un ingente aumento del numero dei cani detenuti all’interno di rifugi. Troppo spesso si dimentica che la finalità del canile dovrebbe essere quella di trovare un’idonea sistemazione agli animali, assicurando loro un futuro in un nuovo ambiente familiare.
Per facilitare l’attivazione di questo processo sarebbe auspicabile incrementare nei canili rifugio quelle attività in grado di ottimizzare e valorizzare i cani ospitati mediante il miglioramento della loro adottabilità e valutazione comportamentale. E’ un dato di fatto che ogni anno migliaia di cani sono abbandonati nei canili del nostro Paese e che solo alcuni riescono ad essere adottati. Per la maggior parte di loro la permanenza nel canile può essere molto prolungata e difficile, a volte per tutta la durata della vita.
Il tutto, inoltre, con costi altissimi per le amministrazioni pubbliche, basti pensare che il costo giornaliero di mantenimento di un cane in canile è di circa 2,5 euro, cifra irrisoria se si considera la qualità di vita che può offrire ad un cane ma al contempo estremamente elevata se la si moltiplica per i milioni di cani mantenuti nei canili (LAV, 2005).
Oggi sono ben noti gli effetti che possono essere indotti dalla reclusione in gabbie poco confortevoli e da un ambiente non familiare sul benessere psico-fisico dei cani detenuti nei canili (Wells e Hepper, 1992). In tali contesti, infatti, si sviluppano problemi che determinano la nascita di comportamenti aberranti e anomali definiti “etoanomalie”, cioè comportamenti anormali che si discostano quantitativamente o qualitativamente dalle caratteristiche del repertorio comportamentale della specie, in relazione al contesto e alla frequenza di emissione, alla presenza percentuale nella popolazione e al loro significato biologico (Sparagetti e Verga, 1991).
Cattura e ricovero in canile determinano nel cane delle modificazioni indotte da due fasi reattive. La prima è causata dalle manipolazioni effettuate sull’animale per la cattura e per i trattamenti veterinari (obbligatori per i cani che soggiornano in canile come previsto dalla Legge quadro 281/91) che provocano, come risposta da stress a breve termine, una risposta immediata fisiologica e comportamentale. In tale circostanza, infatti, si attiva il sistema simpatico-midollare del surrene con il rilascio di catecolamine in circolo, un aumento della pressione sanguigna, della temperatura corporea, della frequenza cardiaca e respiratoria (Cohen et al., 1985).
Le risposte comportamentali sono caratterizzate dal tentativo di nascondersi, di difendersi o di fuggire e da una naturale soppressione di tutte le altre attività (Hinde, 1974).” L’ambiente del canile è per gli animali molto logorante: vivono una routine completamente diversa rispetto a quella alla quale erano abituati inizialmente, l’ambiente è nuovo, rumoroso e confinato. In genere, in quest’ambito i cani non solo non riescono ad avere nessun controllo sull’ambiente ma devono anche elaborare il trauma subito dall’abbandono, cattura e distacco dal gruppo (Hennessy et al., 1998).
Il cane, infatti, superata la prima fase dell’abbandono e della cattura, cerca di ricostruire la propria omeostasi sensoriale ed emozionale modificando radicalmente il proprio stile di vita. Quando il periodo di detenzione si protrae per settimane, mesi o addirittura anni, si comprende come subentrino altre problematiche, poiché una reclusione prolungata altera l’equilibrio psico-fisico influenzando negativamente il comportamento (Osella et al., 2005).
I dati dimostrano una realtà ormai nota a tutti. L’impegno da dimostrare sarà quello di ridurre da un lato l’abbandono degli animali, un reato grave, e dall’altro impegnarsi per migliorare la gestione e le leggi in merito al benessere dei cani e dei gatti ospitati nei rifugi.
Diamoci da fare.
Dott.ssa cristiana Matteocci, medico veterinario comportamentalista